Giallo sì, ma che sia nell’Antica Roma, che sappia soprendere e che possa anche regalare qualcosa a lettura ultimata. Walter Astori ci racconta il suo concetto di suspense storica (e non solo) al cospetto di un “Doppio omicidio all’ombra del Palatino”

di Francesco Bordi 

Un autore in crescita sulla strada del giallo storico ed una casa editrice nuovissima e molto accattivante.

Un binomio stimolante per chi ama vivere a cavallo fra letteratura ed editoria, dico bene lettori ed autori?

Noi di Culturalismi, dal nostro canto, abbiamo colto l’occasione di Più Libri Più Liberi 2024 per conoscere meglio Walter Astori  che era presente allo stand della giovanissima Orizzonte Milton per presentare e firmare il suo ultimo titolo, “Doppio omicidio all’ombra del Palatino”.  Così anche io all’ombra, ma dell’imponente nuvola di Fuksas, ho domandato all’autore di raccontarci un’altra Roma, ugualmente suggestiva, similmente problematica, ma un po più datata…

Culturalismi: «Un libro di questo genere presuppone sicuramente una profonda documentazione, ma nel tuo caso, a quanto ho avuto modo di verificare, eri già piuttosto esperto dell’antica Roma così come delle dinamiche di quel periodo. Le pubblicazioni precedenti lo dimostrano perché tu realizzi sempre dei gialli ambientati in quello stesso momento storico».

Walter Astori: «Esattamente. In “Doppio omicidio all’ombra del Palatino” ci troviamo a circa un anno di distanza rispetto al mio libro precedente; siamo dunque nel 60 a. C. Io sono cresciuto con il personaggio Giulio Cesare che mi ha sempre molto affascinato. Per questo genere di romanzi, però, ho pensato di pormi dall’altra parte, nella fazione opposta a quella di Cesare, e quindi ho deciso di introdurre un uomo che fosse di sponda pompeiana nei panni dell’investigatore chiamato a risolvere i casi di omicidio nell’Urbe.

C: «Questo Flavio Callido è esistito veramente? La domanda è d’obbligo visto che molti dei personaggi che si muovono all’interno del tuo libro sono realmente esistiti».

W.A. «No, Flavio è stato inventato, però ha basi profonde. Si tratta di un personaggio che poteva essere verosimilmente di quel periodo. L’aspetto più bello, secondo me, dello scrivere un romanzo ambientato nell’antica Roma, è proprio andare a creare un contesto che sia più possibilmente vicino alla realtà dell’epoca. Ovviamente ci sono personaggi inventati che però vengono inseriti all’interno di determinati meccanismi narrativi e che sono accompagnati da persone davvero esistite. Tutto, quindi, viene collocato nell’ambito di fatti realmente accaduti. Si cerca così di scrivere nella maniera migliore possibile e soprattutto ricreando il modo in cui sono vissuti quegli uomini, quindi alleanze politiche e contesto sociale. Ecco, su questo punto in particolare mi preme sottolineare un aspetto. Quando si legge un romanzo storico, si pensa sempre: “Ah, l’autore è un tuttologo”. Non è vero, l’autore è una persona normalissima che magari ha la passione per un certo periodo specifico ben definito e che si documenta passo passo; ovviamente bisogna sempre partire da una buona infarinatura».

C.: «Quanta documentazione hai dovuto raccogliere dunque per il tuo Doppio omicidio?».

W.A. : «Tanta, sicuramente tanta, però nel momento in cui conosci un minimo il periodo storico, poi lo vai ad approfondire, ma questo approfondimento è fine alla causa. Se io so che devo descrivere un certo tipo di rapporto tra due personaggi, vado a studiarmi accuratamente quei due personaggi. Allo stesso modo se devo descrivere una cena o un’usanza particolare del tempo, andrò ad approfondire quegli aspetti. Non serve sapere tutto quanto di quel periodo, altrimenti diventerebbe impossibile».

C.: «Diventerebbe quasi un saggio e diciamo che altre persone sono deputate a quel tipo di pubblicazione. Se vuoi scrivere un’opera di intrattenimento devi giustamente avere un tipo di approccio differente».

W.A.:  Sì, diciamo che è piuttosto difficile scrivere un romanzo storico, ma allo stesso tempo è più semplice di quello che spesso può sembrare nell’immaginario collettivo».

C.: «Quindi ti sei documentato anche sui cibi dell’epoca, le abitudini e le feste, a seconda dei momenti dell’anno, il valore della moneta… Così, ugualmente avrai fatto per le ambientazioni: hai studiato ed individuato le penombre, le zone delle terme, gli angoli utilizzati per darsi un appuntamento lontano da occhi indiscreti…»

W.A.: «Certo. Io sapevo cos’era di volta in volta quello che mi serviva e quindi andavo ad approfondire solo quel determinato argomento. Poi è ovvio che, scavando all’interno della materia, ti può venire anche lo spunto per altri particolari interessanti. Un romanzo storico è un’opera d’intrattenimento che quindi non ha nessun tipo di aspirazione a voler insegnare chissà cosa. Il mio auspicio però è sempre che chi legga il mio romanzo concluda l’ultima pagina sapendo qualcosa in più, per questo cerco sempre di aggiungere, all’interno della narrazione, delle dettagliate conoscenze e cognizioni di quel periodo.

C.: «Dunque questo Doppio omicidio all’ombra del Palatino deve intrattenere ed informare?»

W.A.: «Diciamo di sì, anche se l’0biettivo di un romanzo deve sempre essere l’intrattenere altrimenti, come dicevi giustamente tu prima, si va sul saggio. Doppio omicidio rimane comunque un giallo all’interno del quale io inserisco delle pillole di storia romana, quindi personaggi effettivamente esistiti ed episodi reali. Questo libro si apre infatti con la violazione dei principi della “Bona Dea”, un fatto veramente accaduto».

C.: «Davvero? Avevo letto il nome di questa festa già nella sinossi, ma non ero sicuro della sua effettiva esistenza, né ricordavo d’averla studiata. Propendevo per l’invenzione narrativa».

W.A.: «No, era una festa che si svolgeva nella casa del Pontefice massimo quindi, nel periodo storico che tratto, si trattava dell’abitazione di Giulio Cesare ossia la domus publica. Qui soltanto il Pontefice massimo e le donne, solamente le donne, potevano celebrarne il culto. L’organizzazione, infatti, faceva capo alle parenti più prossime di Giulio Cesare, ossia la sua seconda moglie e la mamma. Nel corso della celebrazione di quell’anno, però, ci fu questo personaggio, Clodio Pulcro, anche lui realmente esistito, che si travestì da donna per poter partecipare alla festa. Si trattava di un reato gravissimo. Tieni conto che i Romani non condannavano mai a morte i cittadini dell’Urbe. Quando si compiva un delitto di particolare gravità, c’era l’esilio come condanna. In questo caso, invece, si trattava di un reato a sfondo religioso perché si andava addirittura a profanare una dea; la pena dunque era la morte. Io ora non dirò come finisce il processo, però è importante sapere che questa richiesta di condanna nei confronti di Clodio, che fu ovviamente scoperto, ha tenuto veramente tutta Roma con il fiato sospeso per tantissimo tempo».

C.: «Molto bella l’idea di utilizzare questa festa come incipit, si tratta di un culto che in pochi conoscono ed un lettore rimane comunque incuriosito da un inizio del genere. Partendo proprio da questo episodio di cronaca dell’epoca, ti voglio domandare dei tuoi riferimenti ma non quelli storici. Tu sei amante dell’antichità e questo lo abbiamo già appurato in molteplici modi, ma sei anche un’amante di gialli (storici e non solo). A questo punto ti chiedo se hai dei riferimenti nell’ambito del giallo o del noir, a prescindere dalla Roma antica, oppure se hai proprio dei capisaldi fra i romanzieri “storici” come, ad esempio, Valerio Massimo Manfredi».

 

W.A.: «Un autore che mi piace molto e che scrive romanzi nello stesso periodo storico in cui li ambiento io è Steven Saylor. Diciamo anche che l’idea di fondo mi è venuta leggendo i suoi romanzi. Poi, ovviamente, Manfredi è sicuramente un esempio nel settore, ma ce ne sono anche tanti altri, alcuni anche fondamentali ma non tutti mi sono piaciuti allo stesso modo. Steven invece oltre ad avere delle ottime idee di base, mi ha aiutato anche a ragionare, infatti dopo averlo letto mi sono detto: “Ma perché un Americano deve scrivere un romanzo sull’antica Roma e non lo posso fare io che sono romano ed appassionato del periodo?”».

C.: «Noi siamo Romani e siamo molto orgogliosi della città in cui viviamo, ma non sempre ci appassioniamo a quello che vi è accaduto in precedenza. All’estero invece, spesso, sono molto più appassionati di noi in tal senso».

W.A.: «Sai perché? Noi troppo spesso diamo per scontata questa città e quindi non andiamo mai ad approfondire quelle tematiche e quei momenti storici che hanno portato Roma ad essere quello che è oggi. Mentre molti stranieri, soprattutto in America, sono veramente appassionatissimi di questo periodo storico. Ti faccio un altro nome, stavolta europeo: Santiago Posteguillo ha scritto un’intera trilogia su Scipione l’Africano mentre ora ne sta realizzando un’altra su Cesare. I primi due di quest’ultima trilogia non sono niente male, anzi… dà quasi lezione a noi Italiani. Ed è sbagliato da parte nostra! Poi è vero anche che possiamo vantare Valerio Massimo Manfredi che tra le massime istituzioni sul tema ed anche lui può salire in cattedra, però non dovremmo mai dimenticarci della fortuna che abbiamo ad avere Roma. Dovremmo anche abituarci a fare dei parallelismi che ci aiutino. Se tu ci pensi, tante caratteristiche che vengono descritte all’interno del mio romanzo ambientato tra il 60 ed il 59 a.C. , si trovano ancora oggi. Alcuni elementi rappresentano delle vere e proprie linee guida che sono ancora sono valide. Faccio alcuni esempi: Roma è sempre stata una città multiculturale. È una città che, comunque, ha sempre accolto tutti. Certo, va specificato che durante l’epoca imperiale (e in quella antecedente) questa accoglienza riguardava anche tutte le popolazioni che venivano conquistate. Oggi per fortuna non conquistiamo più nessuno, però a mio parere è stata e rimane ancora, comunque, una città multiculturale. Tantissimi stranieri vengono qui ogni anno decidono di fermarsi e arricchiscono quello che poi è il nostro scambio culturale. Questo è un aspetto positivo. Poi ce ne sono anche altri, negativi, che purtroppo sono stati elementi distintivi del periodo e che permangono ancora oggi: i cosiddetti intrallazzi o la corruzione purtroppo non mancano; le situazioni di Mafia Capitale avvenivano anche nell’antica Roma».

C.: «In generale più una città è grande ed importante e più presta il fianco a questo tipo di contaminazioni».

W.A.: «Faccio un altro esempio. In Doppio omicidio si accenna alla nascita del triumvirato, di fatto un accordo sottobanco tra persone che fondamentalmente non andavano d’accordo o che comunque mal si sopportavano. Se è vero che Crasso ha spinto l’idea politica di Cesare fin da subito, è anche vero che Pompeo non andava d’accordo né con Cesare né con lo stesso Crasso, con cui aveva avuto parecchi screzi sia dai tempi della rivolta di Spartaco. Crasso, infatti, aveva svolto tutta la campagna contro il ribelle, ma poi è arrivato Pompeo che ha vinto l’ultima battaglia, quella decisiva, e si è preso tutto il merito del trionfo per aver sconfitto la rivolta degli schiavi. Inoltre, avevano già condiviso per ben due volte il consolato senza trovarsi in accordo. Si trattava, però, di un’alleanza necessaria. A Roma c’era un’oligarchia di uomini chiamati “ottimati”, costituita da coloro che venivano considerati i migliori ed i più colti e che volevano mantenere i propri interessi all’interno interno della Repubblica prima e dell’Impero poi. Questi ottimati avevano monopolizzato il Senato e quindi per potersi far strada, tre personaggi diversi tra loro come Cesare del ceto popolare, Pompeo, che benché avesse combattuto e vinto in tre continenti pagava il fatto di non essere romano, e Crasso che era un personaggio del ceto equestre da “soldo pesante”, si alleano proprio per poter fronteggiare un gruppo così potente in una struttura governativa che non lasciava margini a nessun altro. Catone o Cicerone, ad esempio, erano uomini poco validi dal punto di vista militare, ma molto intelligenti e perfettamente in grado di “paralizzare” la politica dell’epoca. Catone aveva addirittura una sua tecnica per bloccare le decisioni in Senato: lui era in grado di parlare sine die. Iniziava a parlare la mattina e non finiva mai. In questo modo i senatori si stancavano di ascoltarlo parlare e se ne andavano; si arrivava veramente al punto che non c’era più alcuna maggioranza per poter decidere e quindi non si votava».

C.: «Questa tua impostazione è anche tipica del tuo editore, Orizzonte Milton: guardare le opere classiche o antiche con un occhio più contemporaneo. Infatti, semplificando all’estremo, Doppio omicidio all’ombra del Palatino si potrebbe definire come la storia di un detective dell’epoca, diciamo così. Questo modo di vedere i fatti storici nei luoghi che ami… l’hai mai provato “al rovescio”? Se tu viaggi e ti ritrovi quindi in un posto che ti affascina particolarmente, hai mai pensato di utilizzare quello stesso occhio per ambientarvi una vicenda del passato? Magari documentadoti a dovere, diciamo alla maniera di quei romanzieri storici americani, che citavi prima, nei confronti di Roma?».

W.A.: « No, a dire il vero non ci ho mai pensato perché non mi ha mai ispirato l’idea di scrivere un romanzo ambientato in altre location. Non avrei lo stesso trasporto e poi secondo me per scrivere bene su un argomento, bisogna conoscerlo in maniera molto approfondita, quindi quello che potrei fare io di diverso sarebbe scrivere di Roma ai tempi nostri, oltre a quella del periodo antico che comunque ho studiato e mi ha sempre appassionato. Però se dovessi immaginare un romanzo ambientato, che so, a New York oppure New Orleans, non andrei a rappresentare nel miglior modo possibile ciò che voglio. Non intendo le città, perché documentandoti in maniera ampia, magari riesci a renderle, ma è lo stile di vita americano che mi darebbe problemi, presente o passato che sia. È talmente lontano dal nostro che, secondo me, richiederebbe uno studio ancora più approfondito rispetto a quello che un romanzo storico sull’Antica Roma richiede. Non è proprio il mio modo di pensare e di vedere, quindi farei davvero molta fatica».

C.: «Invece a livello europeo? Riusciresti ad ambientare una storia presso i nostri vicini? Spagna, Francia…?».

W.A: «Potrei magari “spostare” una parte di un romanzo, ma moderno non nell’antichità, e ambientarlo in location diverse: un po’ a Roma, un po’ Spagna o Francia, ma comunque sono realtà che non conosco così bene. Dovrei studiare veramente in maniera accurata e viverle anche meglio. Rischierei di commettere lo stesso identico errore che fanno tantissimi giovani che iniziano a scrivere. Anche se partiremmo da punti di vista differenti. Ci sono giovani che si appassionano alla serie televisiva di turno e pensano bene di scrivere un romanzo ambientato… magari a New York, senza sapere nulla di come funziona la vita lì, sbagliato! Io ho sempre letto tanti autori americani, anche se in quest’ultimo periodo, invece, prediligo più i romanzi italiani o di ambientazione italiana; adoro Camilleri. Se penso, però, ai miei scrittori stranieri preferiti, ci sono due autori di cui ho letto tutti i romanzi, ma davvero tutti: Michael Connely e Robert Crais. Mi piacciono molto come impostazione e come stile, però dovrei andare talmente tanto a snaturare il mio modo di scrivere per assomigliare a loro che poi, alla fine, andrei quasi a scimmiottare quello che fanno. Non ha senso, perché ognuno deve avere un suo stile. A quel punto perché dovresti leggere me se hai già l’originale che è anche di un certo livello. No? Sarei un’imitazione. Come ti posso raccontare un detective americano? Non conoscerò mai per bene tutti i particolari. Se ti leggi Connely, ti racconta tanti di quei dettagli (con così tanti nomi che quasi ti perdi) da cui si evince che è stato un giornalista di quel preciso posto di Los Angeles. Conosce benissimo tutto quello che è il tessuto sociale, arrivando addirittura al tipo di discorsi che fanno quei poliziotti fra loro».

C.: «Rimanendo proprio sul linguaggio, hai mai preso in considerazione il fatto di scrivere sempre su Roma ma in altre epoche e quindi utilizzare dialetto?».

W.A.: «Sinceramente no, anche perché, a mio parere, in dialetto può scrivere Camilleri che ha un suo stile riconoscibile e che, in un certo senso, ha creato un suo genere letterario magari meno fondato sulla storia e più “macchiettistico” in relazione ai personaggi. Se dovessi scrivere dei romanzi ambientati ai giorni nostri, Roma oltre che sfondo sarebbe ancora una sorta di personaggio, così come la Sicilia lo è per Camilleri, però non userei il diletto, anche perché per padroneggiare il romano vero dovresti essere nato in zone come Trastevere o Testaccio. Io sono del quartiere Eur, quindi tanti termini dei Romani di una volta neanche li conosco. Un conto è la cadenza che tutti noi Romani abbiamo, chi più chi meno, un conto è scrivere in quella maniera. Se leggi Camilleri, ti confronti con IL dialetto siciliano, anche se magari un po’ arrangiato per esigenze letterarie. Credo che non sarei in grado di esprimermi così bene. Preferisco andare avanti con l’italiano».

C.: «Andando avanti, allora, nella scrittura dei tuoi romanzi pensi di rimanere comunque su Roma antica come epoca?».

W.A.: «Domanda difficile. Ogni volta che finisco un romanzo sull’antica Roma (e ne ho scritti tre), dico che è l’ultimo perché è un tipo di narrazione che ti porta ad affrontare una marea di difficoltà strada facendo. Tante volte ti accorgi che non hai reso bene un personaggio rispetto a quello che è stato nella realtà storica, quindi devi tornare indietro e riguardarti mille parti del libro e cercare di sistemare nel miglior modo possibile. Ti ritrovi nuovamente a studiare quel condottiero, ad approfondirlo. Immagina solamente questo: devi raccontare una semplice cena ai giorni nostri. Che fai? Vai con la mente ad una delle ultime occasioni che hai avuto assieme a degli amici, modifichi qualcosa in base alle tue esigenze di scrittura ed il più è fatto. Nell’antica Roma, no. Non mangiavano come noi.  Devi andare approfondire tutto quello che si mangiavano, come lo mangiavano, senza dimenticarne le usanze particolari come, ad esempio, la sgradevole abitudine del frequente ruttare presso le tavole: piccoli dettagli che però rendono l’idea di un mondo completamente diverso. Per quanto i Romani fossero una civiltà molto evoluta, esistevano dunque degli aspetti dei loro tempi che oggi ci farebbero inorridire, basti pensare alla schiavitù: persone che non erano persone, che non valevano nulla. Quindi è difficile andarsi a immedesimare nell’epoca. Poi, però, quando entri nel meccanismo e ti sembra quasi di vivere nel periodo, riesci a proseguire nella scrittura. All’interno di tutto questo devi ambientare un giallo credibile tenendo conto dei personaggi storici e del loro modo di vivere. Si tratta davvero di uno studio continuo. Quindi a volte mi dico: “Ma chi me lo fa fare? Ma perché non scrivo dei tempi nostri che è più facile?».

C.: «Considerando la documentazione che ti tocca ogni volta che scrivi questo tipo di romanzi (benché la storia sia pane per i tuoi denti) quanto tempo inpieghi per ultimare i tuoi titoli, da quando inizi a quando mandi tutto all’editing?».

W.A. «Considera che solamente la parte che riguarda strettamente la scrittura, calcolando che uno non fa solo quello, mi porta via circa sei mesi. Ed è la parte più facile, perché nel momento in cui tu hai una storia, la scrittura è mestiere. Ho il mio schema su cui lavoro come se fosse la sceneggiatura di un film, quindi ragiono per scena».

C.: «Come per uno storybord?».

W.A.: «Esatto. O meglio ancora come per “i timoni” dei giornali come si faceva una volta. Immagina quindi questo “soggettone” di circa venti, trenta pagine, diviso per scene. Cerco sempre di non immaginare una scena in cui non succede nulla, come ad esempio una sequenza con troppe riflessioni perché dopo un po’ annoia anche me. Un autore che io ho amato tantissimo è Faletti che però, nei suoi primi libri, inseriva delle sequenze fatte solo di pensieri. In “Niente di vero tranne gli occhi” c’è un un capitolo di sole riflessioni del protagonista in moto che non sono riuscito ad apprezzare, ma si tratta del mio gusto personale. Stiamo parlando di un grandissimo della nostra letteratura, il suo “Appunti di un venditore di donne” è uno dei libri che ho amato di più negli ultimi anni. Semplicemente io lavoro in maniera differente, cerco sempre di far conoscere il personaggio presentandolo in maniera funzionale alla storia: il classico clifhanger ossia inserire qualcosa che spinga il lettore ad andare avanti lasciandolo sempre “appeso” nell’incertezza di ciò che potrebbe accadere. Poi se viene impiegato un solo “io narrante”, questo è ancora più difficile. Ken Follett ad esempio, ti mette cinque, sei personaggi in modo tale da rendere più facile spezzare la trama e spingere il lettore ad andare avanti. Ogni scena, secondo me, deve essere sempre funzionale allo svolgimento del romanzo. Dal momento che io impiego anche più di sei mesi a scrivere, ho bisogno di un soggettone che mi guidi. Questo mi consente, anche se sto due settimane senza scrivere niente, di riportarmi esattamente al punto in cui mi trovavo. A maggior ragione, avendo a che fare con dei gialli, non si può partire senza sapere dove si va a parare: chi è l’assassino? Perché l’ha fatto? Sottolineo questi elementi perché spesso, in molti autori contemporanei, mi trovo a contestare un aspetto della loro impostazione. Sono autori di libri bellissimi che ti prendono dalla prima all’ultima pagina. Il problema, però, è che hanno la tendenza ad “accompagnare” il lettore al colpevole. Io sono un po più vecchia scuola, sono cresciuto “giallisticamente” parlando con Agatha Christie. Il mio secondo romanzo è stato è quasi un omaggio a lei: villa di campagna, pochi personaggi e ognuno può essere il colpevole… Quello che cerco sempre di fare nei miei romanzi è dare al lettore gli stessi indizi che do all’investigatore. Poi è ovvio che sta all’abilità dello scrittore far sì che il lettore non ci capisca nulla e che scopra l’assassino solamente alla fine. A me con Agatha Christie succedeva sempre, avessi mai capito una volta chi era l’assassino. Spesso, invece, nei gialli di oggi io non ho gli stessi elementi che aveva l’ispettore il commissario o il poliziotto per poter scoprire chi era il colpevole. Un lettore ha diritto di conoscere tutti gli elementi, a quel punto starà solamente alla sua abilità… Ti dico questo: io in un momento di particolare “malattia”, sono arrivato a prendere appunti su un libro di Agahtha Christie, non ricordo quale fosse il titolo, ne ho letti davvero tanti. Ricordo invece che disegnavo e scrivevo delle note, accumulando appunti, per arrivare alla fine e sperare di poter dire: “OK, ci sono arrivato da solo”, come faceva Poirot. In un’altra occasione lei mi ha fregato nel modo più bieco possibile. Ecco, lì mi ha preso proprio in giro. Ci sono rimasto male perché l’assassino era il narratore. Tu non penseresti mai ad una cosa del genere. Allora da un lato la maledici, ma dall’altro lato apprezzi la sua genialità e ti chiedi “Perché non ci ho pensato io?”. Da lettore, io voglio essere sconfitto, perché se l’autore mi ha battuto, significa che è stato bravo».

C.: «La sconfitta del lettore di gialli è l’unica che apprezziamo. I fallimenti non piacciono mai a nessuno, ma quelli che si verificano nel corso delle nostre letture sono davvero piacevoli e ci fanno capire d’aver fatto bene a puntare su quel libro, una sensazione che al livello cinematografico è più difficile da replicare perché comunque in presenza di sequenze di immagini già decise dal regista, lo spettatore ha forse meno margine di manovra. Il rapporto tra le pagine e chi le legge crea più pieghe all’interno della storia. In qualche modo la fotografia cinematografica inchioda e limita le ipotesi di chi guarda».

«W.A.: «Infatti di dico che io preferisco sempre il libro alla sua trasposizione, cinematografica o televisiva che sia, anche se con la crescita delle serie di questi ultimi anni, forse oggi è più facile rappresentarlo meglio. Se pensiamo, per esempio, ad un testo di trecento o anche quattrocento pagine, ecco che un’ora e mezza o anche due di film, forse, sono troppo poche. Al contrario otto, dieci episodi di una serie possono garantire un risultato migliore. Anche in questo caso, però mi preme una precisazione. Ho apprezzato moltissimo alcune serie, come ad esempio quella di Montalbano, (di cui comunque preferisco sempre il libro) benché fosse costituita da tutte puntate autoconclusive. Si tratta di eccezioni. Io, infatti, di solito se devo scegliere una serie, preferisco quella che serializza davvero la trama, in modo tale che ogni suo episodio mi lasci la voglia di andare avanti per sapere come prosegue: quel famoso clifhanger di cui parlavamo prima. Se cominci a guardare una serie in serata e quando si fa l’alba stai ancora lì a vedere come va a finire, vuol dire che i realizzatori sono stati bravi».

C.: «Si tratta della questione della “continuity” già ricercata in precedenza e che oggi è arrivata ai massimi livelli. Ormai c’è una “professionalizzazione” degli sceneggiatori e dei registi di serie televisive e su piattaforma che spesso sono anche più quotati rispetto a quelli dei film perché c’è un investimento in quella direzione molto più forte rispetto alla pellicola classica».

W.A.: «Vero, è un tipo di intrattenimento che mi piace tantissimo, dall’altro lato però ribadisco l’importanza del libro. Non perché sono scrittore anche io, ma perché, come dicevi anche tu, è differente il rapporto fra il lettore e le pagine. Non pensiamo solo all’antica Roma, come può essere il mio caso, immagina una città che non conosci: la Vigata di Camilleri, per esempio, che nemmeno esiste. Tu vai a vivere la realtà di quella cittadina attraverso dei personaggi che poi sembrano quasi tuoi amici per quanto impari a conoscerli bene e per come l’autore ti porta a vivere le loro storie. Secondo me, purtroppo, oggi si legge troppo poco e non leggendo e si perde qualcosa.

C.: «Sono d’accordo, chiaramente. Sono parole valide che si sentono soprattutto nel settore dell’editoria indipendente. A proposito, com’è nato l’incontro con Orizzonte Milton?».

W.A.: «In maniera molto semplice, tramite l’agenzia che mi rappresenta. Mi hanno comunicato che un editore nato da poco aveva molto apprezzato i libri precedenti ed avrebbe voluto pubblicare il mio ultimo romanzo. Ho conosciuto Gianluca, il direttore editoriale, e devo dire che mi sono trovato benissimo.  In questa casa editrice ho incontrato persone che prestano davvero tanta attenzione ai testi e credimi che non è scontato. Ho avuto esperienze anche con editori molto più grandi che facevano bene il loro lavoro, ma ti dico che l’attenzione nell’analisi del testo e anche nella semplice correzione di bozze in Orizzonte Milton sono state maniacali, sia nelle osservazioni che nei consigli che mi sono stati rivolti. C’è una dinamica su cui scherzo spesso e quindi mi fa piacere raccontarla. Benedetta è stata l’editor che mi ha aiutato nel sistemare e quindi mandare in pubblicazione questo mio ultimo romanzo. Per un periodo ci siamo scritti tantissimo, sia via mail che per messaggio. Ogni volta che vedevo una sua comunicazione in arrivo, avevo paura e mi dicevo: “Adesso che cosa devo correggere?”. Era bravissima perché mi dava una serie di spunti e di riflessioni senza mai imporre nulla. Lanciava delle proposte e delle idee per eventuali cambiamenti che magari potessero rendere un personaggio in maniera più incisiva. Sono stati molto attenti al dettaglio e devo dire con onestà, anche per chi avrà il piacere di leggere Doppio omicidio all’ombra del Palatino, che persino l’impaginazione è davvero notevole. Loro sono nati da pochissimo, però hanno le idee chiare su dove andare».

C.: «Sono d’accordo, infatti ho avuto la tua stessa identica impressione quando li ho conosciuti lo scorso ottobre al Pisa Book Festival. Rimanendo su di loro voglio agganciare un altro tema da sottoporti. Orizzonte Milton è una casa editrice famigliare costituita da molte donne, alcune giovanissime, di cui hai avuto modo di apprezzare la professionalità. Come sai in questo periodo il discorso del femminile, declinato in più maniere, è molto importante; abbiamo avuto modo di appurarlo anche qui nei giorni della Fiera. A questo proposito ti domando che rapporto c’è con il femminile nel tuo romanzo. Nella sinossi non mi è sembrato di vedere grandi personaggi femminili».

W.A.: «No, non è così, ti devo correggere. Ti dirò anzi che specialmente in questo mio ultimo lavoro c’è un personaggio molto forte, un’attrice del tempo realmente esistita di cui mi sono avvalso all’interno della vicenda. Una donna molto tenace ed emancipata. A proposiro, quando si pensa che la società romana sia stata solamente maschile è uno sbaglio. È vero che le donne non entravano in Senato e sicuramente era un limite molto grave, tuttavia l’opinione delle donne al tempo dell’antica Roma era di estrema importanza. C’è un personaggio all’interno di questo romanzo, Servilia, che è fondamentale. Oltre a essere la sorella di Catone, era anche l’amante di Giulio Cesare ed era un personaggio che ha sempre rappresentato un punto di riferimento. Cesare, infatti, perde la sua prima moglie quando era molto giovane. Ne era innamoratissimo. Era stata la sua compagna praticamente da quando erano bambini. Con le mogli successive che ha avuto non ha più ritrovato quel tipo di rapporto, ma si è legato molto Servilia. Su ogni cosa che Cesare decideva o faceva, lei aveva sempre voce in capitolo perché era lui stesso che andava a chiedere il suo parere. Questo ti fa capire quanto grande fosse la sua importanza all’interno della storia. Ti dirò di più, al di là delle vicende di Cesare, io qui gioco in realtà con due personaggi femminili di spessore, entranbi legati al protagonista. Da un lato la fidanzata, o meglio la futura moglie di questo giovane senatore, e poi la famosa attrice del tempo. Sono due personaggi completamente agli opposti, realmente esistiti, che mostrano due tipologie di donne di quel periodo. La prima Giunia, che era appunto la figlia di Servilia, era un personaggio molto legato alla famiglia dall’impostazione classica in cui il marito andava rispettato, assecondato e quasi “venerato” dalla moglie. Dall’altra parte abbiamo invece Arbuscola, un’attrice che si potrebbe quasi considerare una arrampicatrice sociale dell’epoca. Parte dal basso, facendo il mimo, per poi fare davvero molta strada. Lei aveva un carattere molto più forte e capace di tenere a bada gli uomini. Duqne all’interno del romanzo c’è anche questo rapporto con il femminile da parte del protagonista che si sente diviso a metà provando un’attrazione sia verso la donna vecchio stile, diciamo così, sia verso un’altra donna che gli tiene testa e che non lo asseconda, anzi a buon bisogno lo rimprovera a gran voce».

C.: «In Doppio omicidio ritroviamo queste donne e questi uomini che effettivamente hanno fatto parte della Roma antica. Noi, però viviamo in un periodo piuttosto delicato, soprattutto a livello di comunicazione, in cui bisogna prestare moltissima attenzione a svariati aspetti e dettagli. Hai avvertito, in tal senso, una certa pressione quando hai cominciato a delineare i personaggi femminili? Eri preoccupato di eventuali mancanze o stereotipi su cui rispondere? Sempre su questa falsa riga, si sono fatti vivi dei detrattori relativi al modo in cui affronti il giallo storico? Gente che grida all’errore, all’inesattezza o alla scarsa veridicità del tuo inquadramento sociale dell’epoca? Se a muovere delle accuse fosse qualcuno “titolato” a farlo, come reagiresti?».

W.A.: «Anche per questo giallo ho fatto come ho sempre fatto per i miei libri precedenti: ho seguito la mia impostazione e la mia documentazione a prescindere dalla presenza di donne o uomini da descrivere, senza preoccuparmi d’altro. Nel caso dei detrattori, magari il primissimo istinto di replica non è quello da seguire… Bisogna sempre riflettere. Se ci pensi, la critica fine a se stessa è quella più inutile la critica costruttiva è invece quella utile. In questo caso se l’autore è una persona intelligente, accetta la critica, la ascolta e ne fa tesoro. Se tu mi dici che ho sbagliato qualcosa, io la prima cosa che faccio è andare a controllare. Se tu hai ragione, oltre a dichiarare il mio errore, io ti ringrazio. Ti faccio un esempio relativo al romanzo precedente. Nel mio “Omicidi nella Domus”, io commetto un errore storico, nel senso che chiamo Catone con l’appellativo “Catone l’Uticense”, peccato che in quel periodo di cui ho scritto ancora non lo fosse, perché viene chiamato così proprio per il posto dove va a morire. Dunque, si tratta di un anacronismo. Questo perché l’ho voluto identificare con il nome con cui storicamente lo conoscono tutti, ma rimane comunque un errore. In quel caso mi hanno scritto dicendo che avevo sbagliato, per fortuna educatamente, ed avevano ragione. Scrivere romanzi storici ti porta sempre dei rischi perché capita che ci sia magari un lettore che ne sa più di te su quell’argomento. Di norma sono molto attento ai dettagli, però per banale disattenzione o per essere funzionale nei confronti della vicenda che inserisco nel contesto, può capitare di commettere qualche errore. Quando termini un tuo lavoro pensi sempre d’aver realizzato la migliore stesura possibile, però già se io rileggessi oggi alcuni romanzi, probabilmente andrei a correggere qualcosa dal punto di vista quantomeno del lessico. L’importante però è che dalla critica non si passi all’insulto».

C.: «Il discorso sul possibile errore, mi porta a farti una domanda che ultimamente mi trovo spesso a rivolgere sia agli autori che agli editori, ossia il rapporto con l’Intelligenza Artificiale. Saprai di certo che ci sono dei programmi in grado di scrivere perfettamente dei romanzi, anche godibili in maniera semiautonoma. Io inizialmente ridevo di questa situazione perché avevo visto solamente gli albori del fenomeno, ora invece prendo la questione in maniera più seria. Gli algoritmi si sono moltiplicati, i sistemi si sono nutriti delle nostre esperienze da scrittori, da recensori da traduttori ottenendo dei risultati impensabili, anche in campo internazionale. Tu come ti poni, ne hai paura? Pensi che non succederà niente di particolare o credi che un giorno arriveremo al punto in cui tutti noi che scriviamo libri, li recensiamo, li traduciamo e li interpretiamo non saremo più i protagonisti? Sta finendo la nostra era?».

W.A.: «Secondo me, no. Chiaramente la tecnologia va avanti e bisogna seguirla, perché ti aiuta. Ti confesso che io ho provato a scrivere un racconto con ChatGPT per vedere cosa riusciva a tirar fuori. Prima l’ho istruito e poi ho chiesto di ideare questa storia modificandola, in base ai miei gusti, all’interno della struttura che aveva concepit0».

C.: «Risultato?».

W.A.: (Ridendo): «Sono più bravo io. Nel senso che il risultato ottenuto non è soddisfacente per un lettore. Poi, magari, se avessi impiegato più tempo nelle impostazioni iniziali, il racconto sarebbe sato più fruibile, ma l’ho fatto solo per gioco. Non avrei mai proposto a nessuno la pubblicazione di un raccontino scritto con ChatGPT. Credo però che si tratti di una tecnologia che può aiutare lo scrittore. Pensa, ad esempio, a chi scrive all’interno di un periodo particolare come il mio, in quel caso ti può aiutare a ricostruire quel momento storico. Ovviamente si tratta di una documentazione che va sempre presa con il beneficio del dubbio. Nell’utilizzo di quel tipo di programmi, infatti, ti imbatti nel disclaimer: “è soggetto ad errori”, quindi bisogna sempre andare a verificare».

C.: «Da qui a cinque anni, chiaramente migliorerà, non temi quel momento?».

W.A.: «Ma no, perché rimane comunque un’intelligenza artificiale. Tutto ciò che viene realizzato con questo tipo di programmi, è sempre molto standard. Per quanto un racconto dell’I.A. possa essere scritto perfettamente, mancherà sempre un certo punto di vista dell’autore. Il compito più bello di uno scrittore è inventarsi delle storie, si tratta anche dell’aspetto più complesso e che richiede maggior tempo rispetto ad altre fasi. L’intelligenza artificiale scriverà sempre e comunque una storia riacalcata su altre storie che sono state già fatte. Poi magari mi sbaglio e gli sviluppi saranno geniali e stupefacenti, ma ti dico che io non la temo, anzi la utilizzerò per migliorarmi».

C.: «Visto che stai parlando di miglioramenti ed evoluzioni, ti sottopongo questi quesiti strettamente connessi. Utilizzeresti mai l’intelligenza artificiale per trasformare il tuo romanzo in una possibile sceneggiatura filmica o serializzata da presentare al piccolo e grande schermo? Che tipo di struttura ipotizzeresti ed imposteresti a livello di trasposizione?».

W.A. «Sicuramente non utilizzerei l’I.A., ma mi affiderei a un professionista. Secondo me, ad oggi, la mano dell’esperto vince sempre, su tutto. Vale anche nel mio caso, io sono un autore e scrivo il romanzo. Serve una sceneggiatura per il mio titolo? La scrive lo sceneggiatore. In passato c’è stato un avvicinamento a quel settore, si trattava di una trasposizione seriale. Poi, purtroppo non se n’è fatto nulla, speriamo che in futuro possa verificarsi. Mi piacerebbe molto. Il tipo d’impostazione narrativa che do ai miei romanzi credo che si presterebbe molto ad una versione seriale su schermo, ma mi rendo conto che questo lo dicono spesso tutti gli autori: “Oste com’è il vino? Buono?'” “Sì, certo!”. (sempre ridendo)».

C.: «Tutti noi che, a vari livelli ed a vario titolo, ci occupiamo di libri e di scritture originali, abbiamo firmato dei contratti relativi ad eventuali trasposizioni di quanto abbiamo scritto. Sono questioni di compravendita di diritti in cui, nella maggior parte dei casi, la nostra voce, una volta firmato, conta il giusto. Infatti, noi “cediamo” quei diritti, ma se tu potessi inserire una sorta di clausola particolare di “diritto dell’ultima parola”, come ti comporteresti? Spesso, infatti, il film o la serie che vediamo si discostano parecchio dall’idea originale concepita dall’autore. Se così fosse, saresti un critico fortemente acceso, (visto che già lo sei nei confronti di te stesso in corso di stesura), oppure in considerazione d’approdo al grande pubblico, “molleresti” un po’ e daresti comunque il tuo assenso?».

W.A.: «Questa è davvero un’altra domanda difficile. Probabilmente il pensiero di sbancare con una serie sarebbe talmente forte che non andrei a questionare.  Tanto è ovvio che la trasposizione non potrà mai avere l’occhio che hai tu quando l’hai scritto. Magari un personaggio te lo rendono diversamente da come tu l’hai pensato ed un autore non ne è certo contento, però non bisogna nemmeno nascondersi. Andare in televisione sarebbe un’occasione così bella e porterebbe così tanta popolarità da darmi lo slancio per scriverne altri dieci di romanzi? Certo, se proprio dovessero stravolgere tutto quanto ed il messaggio del mio titolo fosse l’opposto di quello che ho pensato, allora non acconsentirei, ma sai… nel mio caso si parla sempre di un giallo, quindi, è difficile snaturare un mio libro».

C.: «Visto che abbiamo parlato di critiche, reazioni ad eventuali attacchi e rigore assoluto nel corso della stesura del testo, tu cosa critichi a Walter Astori autore? Su cosa pensi di dover migliorare. Hai scritto un buon numero di titoli e quindi puoi fare già un bilancio. Al di là delle migliorie stilistiche, c’è una parte nascosta nella tua testa che sa che avresti potuto far meglio ma che per colpa di stanchezza o di poco tempo ha lasciato correre?».

W.A.: «Non vorrei sembrarti troppo egocentrico, ma la critica più grande che mi farei è che scrivo troppo poco. Dovrei dedicarmi ancora di più alla scrittura. Considera che se non sono totalmente soddisfatto di come è venuto, il romanzo non esce. Quando lo vedete pubblicato vuol dire che sono assolutamente convinto della storia che ho portato avanti lavorando assieme all’editore. Poi può piacere o non piacere al lettore, però rimango sostanzialmente soddisfatto di quello che ho fatto».

C.: «Questo vale solo per Doppio omicidio all’ombra del Palatino o anche per il libri precedenti?».

W.A: «Più vai avanti, più migliori, anche nello stile. Se mi domandi di un libro che ho scritto nel 2015 ti dico che oggi, che ho un’altra maturità e un altro modo di scrivere, forse, lo realizzerei diversamente. Agli inizi facevo l’errore che fanno un po’ tutti gli scrittori alle prime armi, ovvero troppi paroloni, troppi tentativi di voler stupire a tutti i costi e in ogni frase, quando poi in realtà la cosa più semplice da fare è scrivere pensando che il tuo lavoro debba poter essere letto da chiunque: dalla persona super erudita così come da chi ha preferito fermarsi presto negli studi ma che magari è appassionato di quel genere letterario. Tu devi arrivare allo stesso modo ad entrambe le tipologie di lettore. Quindi credo che  semplicità e scorrevolezza siano gli obbiettivi da perseguire. Bisogna riuscire a scrivere apertamente per tutti e soprattutto senza la costante ricerca dell’effetto WOW, tanto se la trama è bella il risultato comunque arriverà».

C.: «A questo punto chiudiamo con la domanda più autentica di tutte che impone assoluta sincerità. Ti chiedo di dirmi, sapendo già che eviterai impostazioni e frasi stereotipate, perché un lettore, dovrebbe acquistare il tuo libro. L’hai scritto, l’hai amato e ti sei documentato tanto per ultimarlo, ora però ti chiedo un ultimo sforzo: perché io devo leggere il tuo libro?»

W.A.: «Perché è un romanzo di intrattenimento che ti lascia un qualcosa in più, rispetto a quando hai cominciato, sul periodo storico che viene trattato».

C.: «A te, che l’hai scritto, che cosa ti ha lasciato?».

W.A.: «Tante conoscenze in più su quell’epoca e non solo, mi ha fatto entrare anche in modo ancora più critico in quell’epoca. Quando leggo altri autori rapportabili a me, oggi, avendo una conoscenza molto ampia, mi capita anche di andare mentalmente a correggerli essendo ancora più in grado di individuare errori, inesattezze o anacronismi».

C.: «Quindi all’ombra del Palatino, oltre ad un doppio omicidio hai scoperto anche più occhio critico e più consapevolezza».

W.A.: «Assolutamente sì».

C.: «Ricordando il suo “Doppio omicidio all’ombra del Palatino”, Orizzonte Milton editrice, ringraziamo Walter Astori per essere stato ai microfoni di Culturalismi. Alla prossima!

W.A.: Grazie a te per le domande approfondite. A presto!

 

 

 

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Sito ufficiale dell’autore:

Walter Astori

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