di Claudio Consoli
“Il calcio ha significato troppo per me e continua a significare troppe cose, sono andato a vedere troppe partite, ho speso troppi soldi, ho preteso troppo dalla gente che amo; ok, va bene tutto ma…forse è qualcosa che non puoi capire se non ci sei dentro! …ti guardi intorno e vedi tutte quelle facce, migliaia di facce! Stravolte, tirate per la paura, la speranza, la passione, tutti completamenti persi, senza nient’altro per la testa, poi, il fischio dell’arbitro e tutti impazziscono! Nei minuti che seguono tu sei al centro del mondo ed il fatto che per te è così importante, che il casino che hai fatto è stato un elemento cruciale in tutto questo, rende la cosa speciale, perchè sei stato decisivo: come e quanto i giocatori!” monologo del protagonista di Febbre a 90° di Nick Hornby.
Roma, 9 Novembre 1980
Stadio Olimpico, campionato di calcio di Serie A 1980/81
VII giornata Roma – Catanzaro 0 – 0
Ero piccolo, un bambino, le mie esperienze col calcio erano ancora limitate a prendere a calci lattine schiacciate e pigne con gli amichetti, per la strada o nei cortili di periferia, le mie cognizioni di tattica e formazioni si limitavano ai discorsi che sentivo fare da mio padre (romanista anche lui ma non tifoso accanito) con le mie sorelle più grandi, che invece erano più passionali e innamorate; poi c’era mio zio, colui che per primo mi portò con loro allo stadio: altri tempi! Famiglie intere si incontravano ore prima dell’apertura dei cancelli, poi una grande corsa, a conquistarsi i posti, che non erano numerati ma, non si sa come, alla fine ci si ritrovava tutti più o meno allo stesso punto, stessa fila, seduti su quelle lunghe gradinate di marmo. Un grande rito collettivo, popolare, nel quale ritrovavi il bello e il brutto della Roma di strada, popolana e sanguigna, crudelmente sincera e dunque, a mio avviso, ancora, magicamente Roma! Ricordo che per evitarmi la corsa e la calca per le scale, arrivai dopo qualche minuto impaurito dal frastuono ed emozionato dall’ingresso in quello che solo molti anni dopo capii essere una sorta di tempio neo-pagano, dove gli italiani praticano (in questo si, perfetti osservanti!) il loro vero, unico e immancabile rito settimanale: la partita di calcio!
All’epoca, però, era per me solamente un luogo enorme e pieno della folla più grande, rumorosa e colorata avessi mai visto in vita mia, appena terminata la lunga serie di gradini che salivo aggrappato alla grande mano di mio zio, un omone alto, generoso e buono, i miei occhi si posarono su un’interminabile teoria di visi, sciarpe, striscioni e tamburi, appena vidi per la prima volta il campo, scintillante nel suo vivido verde, proprio allora contrassi “il virus”, mi innamorai perdutamente di due colori, di una passione irrazionale, a volte bassa e triviale ma comunque capace di regalare, in certi attimi irripetibili e inenarrabili a chi è immune a questa malattia, estasi di gioia e sentimenti capaci di farti raggiungere anche picchi di puro lirismo, come testimoniato da pochi film e molte più canzoni, scritte spesso da cantautori generalmente dediti a temi molto più impegnati.
Come ogni rito che si rispetti anche il calcio ha bisogno dei suoi officianti, dei suoi eroi e campioni, nei quali quella chiassosa assemblea deve potersi riconoscere e immedesimare, così che si crei quell’alchimia che sola permette alla cerimonia di trascendere i limiti dell’evento sportivo per tramutarsi in un avvenimento dalla carica emotiva così instabile da riuscire a produrre la più ampia gamma di sensazioni umane, come difficilmente accade in qualsiasi altro happening pubblico; i calciatori sono per i tifosi proprio questo, degli eroi moderni nelle cui gesta l’appassionato cerca l’eco altrimenti sopita di epiche gesta, la consacrazione di un sentimento, a volte un riscatto, emotivo ma anche sociale, quel senso di appartenenza che per storia e cultura, noi italiani non riusciamo ad estendere oltre confini più ampi di quelli osservabili dal campanile della nostra città natale.
Il capitano della propria squadra del cuore è dunque una sorta di Ercole moderno, nelle cui gesta e fatiche noi cerchiamo ispirazione, esempio e orgoglio, al quale si è pronti a riconoscere un amore incondizionato ma anche a chiedere un’abnegazione e un sentimento per i propri colori e la maglia, che non ammette tradimento o passi falsi, pretendendo ciò con una forza e gravità tali da poter rasentare anche la crudeltà.
Mentre salivo le scale del vecchio stadio Olimpico, dunque, sapevo che il capitano di quella Roma che meno di tre anni dopo avrebbe vinto il suo secondo storico scudetto, atteso più di quarant’anni, era Agostino Di Bartolomei ma il significato ed il peso di quella fascia che per anni portò al braccio lo capii per intero più di dieci anni dopo, appena maggiorenne, il 30 maggio 1994 a dieci anni esatti dal giorno più infausto per ogni tifoso romanista: la finale di Coppa Campioni persa ai rigori nel nostro stadio contro il Liverpool.
Quel giorno d’inverno del 1980 però Agostino era ancora il giocatore più amato e osannato dalla curva sud ed infatti il coro che gli venne dedicato fu, per potenza sonora e trasporto di tutta la gente che lo cantava, quello che più mi rimase impresso; mentre venivo travolto e riempito da quel coro:”Ago, Ago, Ago, Agostino! Oooooooh Agostino!” avevo appena conosciuto il mio primo eroe da tifoso.
Quando infatti si verifica quella coincidenza (per chi ancora ci crede…) potente e non comune per cui l’eroe è un figlio della città della cui squadra è capitano e tifoso, quando ancor di più è il prodotto delle sue strade e dei suoi cortili, impastato e formatosi nella polvere di un campetto di parrocchia in un quartiere popolare, va da sé che i presagi di una storia più grande della semplice cronaca sportiva, i segni di un destino dai tratti epici, diventano subito chiari.
A questa storia vera, verissima e toccante vanno poi aggiunti ingredienti come: un carattere ed una personalità schiva ed educata, estremamente seria; un approccio alla vita, lo sport e l’essere uomo in generale più unici che rari in un ambiente che, soprattutto ai giorni nostri soffre di una drammatica carenza della benché minima etica sportiva, fin troppo falso e luccicante, che sbandiera ideali e passioni troppo facili da rinnegare al primo cambio di casacca; una certa innata dose di malinconia, tipica di quelle persone che a volte si incontrano nella vita, che sembrano sempre più mature dell’età che vivono; le trame incredibili del fato che, cieco e rispondente a logiche per noi sfuggenti, continua imperterrito a tessere la trama della nostra vita, a volte prodigo di doni a volte spietato mietitori di raccolti prematuri.
Ultima ma non ultima va aggiunta la cornice di questo quadro e cioè la nostra Italia con tutte le sue miserie e bellezze, i suoi personaggi a volte indimenticabili, a volte discutibili come, guarda caso, il nostro ex presidente del consiglio, il cavalier Berlusconi che compare anche in questa storia come presidente di quel Milan nel quale Di Bartolomei militò dopo il suo discusso e doloroso addio alla Roma: imperdibile l’aneddoto in cui l’allora giovane imprenditore mise in imbarazzo il buon Agostino, organizzatore di una visita del team meneghino a Papa Giovanni Paolo II, nonché i vescovi presenti, con una battuta nella quale il pontefice veniva accostato niente di meno che al suo Milan.
Il regista Francesco Del Grosso, qui anche sceneggiatore, ci regala questo film-documentario in omaggio al compianto campione che, per chi non lo sapesse, è morto suicida, sparandosi un colpo di pistola in quel cuore, il cui dolore probabilmente non riusciva più a sopportare, a dieci anni esatti da quel Roma – Liverpool prima citato, il quale da solo meriterebbe un film.
Il lavoro di questo giovane autore è realizzato con semplicità ma in maniera molto professionale, con un tocco serio e mai invasivo, mai morboso nell’indagare il dolore che ovviamente pervade la narrazione soprattutto nella sua seconda parte; le domande sono quelle giuste e la telecamera non indugia mai un secondo di troppo sul luccichio di uno sguardo con il risultato di realizzare un racconto in pregevole equilibrio fra toccata e toccante partecipazione e onesta raffigurazione di un uomo, nella sua sfera pubblica e nel suo mondo privato, intimo ed a volte ostinatamente solitario, che specialmente per Agostino Di Bartolomei è stato l’humus sul quale la sua grandezza è fiorita ma anche lo scrigno nel quale sono rimasti nascosti i semi della sua tragica scomparsa.
In definitiva “11 metri” costituisce un racconto, uno spaccato, della vita vera di un personaggio popolare che racchiude al suo interno tutti gli elementi di un grande romanzo o di una sceneggiatura cinematografica e che quindi mi sento di consigliare non solo ai tifosi o agli appassionati di calcio, ma a chiunque sia interessato ad un viaggio nell’animo e nei sentimenti umani.
Ultima nota di merito alla toccante ed ispirata canzone che chiude il film scritta da Antonello Venditti e dedicata al suo amico Ago, ma anche a Marco Pantani, che ci regala nel ritornello questa profonda strofa:
” Tradimento e perdono, fanno nascere un uomo, ora rinasci tu! Quel sorriso sgomento, anche se hai vinto, non mi tormenta più!”.
Per ulteriori info:
http://www.cinemaitaliano.info/news/10267/francesco-del-grosso-il-racconto-del-lato.html
http://www.corrieredellosport.it/edicola/iniziativa_252.shtml
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